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La scomparsa di Giuseppe Chiarante e Renato Nicolini

di Claudio Gamba

 

Il 31 luglio 2012 si è spento Giuseppe Chiarante, il 4 agosto Renato Nicolini. Se ne sono andati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e invece molta è la distanza delle loro storie e soprattutto dei loro temperamenti. Eppure molti sono stati anche i punti comuni di due vite spese per la cultura, per fare cultura, per difenderla, per promuoverla, per diffonderla. Lo hanno fatto in modi così diversi perché diversa era l’appartenenza generazionale e molto diversa era la natura del loro carattere.

Chiarante era un uomo di partito e delle istituzioni, pacato ma fermo, sempre impeccabile, in giacca e cravatta, come una divisa, senza i compiacimenti della moda, con il capello ben tagliato e pettinato, la riga da una parte che divedeva la chioma in due onde soffici, lo sguardo acuto e spesso pensoso o rivolto verso lontano ma non altrove, il tono della voce era lento e sottile ma le parole, sempre calibrate per l’occasione e per l’interlocutore, potevano essere precise e taglienti, sapeva anche attendere, sapeva ascoltare, valutare, se necessario obiettare e poi cavarne una sintesi costruttiva.

Nicolini aveva un animo artistico, era architetto ma era più di tutto immaginifico, vulcanico e fanciullesco anche dopo aver raggiunto l’età avanzata, non badava troppo alla forma del vestire e i capelli vagavano arruffati inseguendo a stento la direzione delle idee, la voce non riusciva a star sempre dietro ai pensieri e così spesso i concetti erano sommersi da nuove parole e il discorso seguiva una direzione sghemba, un fiume in piena ma senza arroganza, anzi gli era rimasta una dose di incredulità, quella stessa di quando era stato catapultato a fare l’assessore capitolino a soli 34 anni.

Una cosa avevano in comune: l’attività politica nella sinistra italiana e il convincimento che la politica è al servizio dei cittadini, che la politica e la cultura si alimentano l’una dell’altra, che la città è il luogo di incontro tra le testimonianze del passato e la militanza culturale e politica nel presente. Condividevano anche l’incontro con Giulio Carlo Argan: Nicolini divenne assessore quando lo storico dell’arte era stato eletto sindaco di Roma nel 1976, Chiarante era già grande quando ebbe inizio il legame strettissimo con Argan in Senato e nelle molte battaglie culturali fino alla fondazione dell’Associazione intitolata al grande archeologo, di lunga militanza comunista, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Chiarante e Nicolini non avevano dimenticato il legame con Argan, anzi in molte occasioni ne hanno rievocato la figura, proprio per quel modello di connubio tra mondo degli studi e impegno politico, tra idee e concretezza. L’ultima volta che vidi insieme Chiarante e Nicolini fu nel 2010 proprio in uno dei convegni con cui si è voluto celebrare il centenario della nascita di Argan; il titolo del convegno, in fondo, si adatta bene non solo agli interventi che fecero in quell’occasione ma alle loro vite: “Arte, Città, Politica: la battaglia per la cultura di Giulio Carlo Argan”.

I tre avevano anche condiviso un lungo tratto della loro attività parlamentare negli anni ottanta (la IX e X Legislatura 1983-92): Argan e Chiarante in Senato, Nicolini (con Marisa Bonfatti e altri) alla Camera; fu una azione di concerto, la maggior parte dei disegni e delle proposte di legge erano vicendevolmente elaborati e firmati dagli uni e ripresi dagli altri come testimonia il volumetto Dodici leggi per i beni culturali (firmato da Argan, Chiarante e Bonfatti Paini nel 1992). Con la loro presenza in Parlamento (insieme ad altri ovviamente), il Partito Comunista si era impegnato in modo deciso nelle politiche culturali e per una riforma dell’amministrazione dei beni culturali, cioè di quel ministero solo pochi anni prima fondato e già affondato dalle solite cause dell’inefficienza ministeriale (la burocratizzazione che svilisce le competenze tecnico-scientifiche, le interferenze della peggiore lottizzazione politica, e nello specifico lo scarso peso istituzionale della cultura, i finanziamenti sempre irrelativi alla vastità e all’importanza del nostro patrimonio mentre somme cospicue si disperdevano nei “giacimenti culturali” e il personale veniva implementato senza criteri selettivi con la Legge 285).

Questo impegno a favore della tutela dei beni culturali potrà sembrare in contrasto con la grande innovazione portata da Nicolini nei 9 anni in cui fu assessore (sotto Argan, Petroselli e Vetere): l’Estate romana e la cultura dell’effimero. Sembrerebbe quanto di più lontano da quella tradizionale visione della tutela che avevano figure di studiosi come Argan, ma non è così. Come ha scritto Vezio De Lucia nel suo ricordo di Nicolini (sul “Manifesto”), Argan sostenne e difese il suo assessore dalle critiche interne ed esterne al partito: l’effimero non era una invenzione moderna, era stato già alla base della forma e della vita della città nell’età “barocca”. Nel suo libro sul Seicento, l’Europa delle capitali (1964), Argan aveva dedicato molto spazio al tema della festa e dell’effimero, in sintonia con quanto avrebbero elaborato alcuni suoi allievi come i fratelli Fagiolo (la monografia su Bernini e il “gran teatro del mondo” uscì nel 1967). Nella civiltà figurativa del Seicento Argan vedeva il primo affermarsi della moderna civiltà dell’immagine; l’effimero era anche il luogo della sperimentazione avanzata, quindi, infine, dell’avanguardia fatta popolare, e per restituire alla città di Roma un ruolo nella cultura mondiale bisognava superare il becero provincialismo che aveva contraddistinto le amministrazioni democristiane (tanto timide in fatto di promozione del “moderno” quanto spudorate nella connivenza con il “sacco” urbanistico delle periferie). Bisognava anche superare l’ossequio comunista al realismo sovietico e proprio l’effimero contribuì, pur con molte buone intenzioni e alterni risultati, a fare di Roma un modello di città partecipata e colta.

Qual è il collegamento tra politiche dell’effimero e politiche della tutela, cioè della conservazione? Non è solo che i luoghi della cultura vengono salvati più e meglio quando la cittadinanza li sente propri e se ne fa vigile custode, c’è una ragione più ampia. L’effimero era (per loro, un architetto e uno storico dell’arte) anche una azione parsimoniosa del “costruito”, non rinunciava all’intervento culturale ma senza l’aggiunta di altri edifici in una città saccheggiata e martoriata, prima dagli sventramenti e poi dall’abusivismo. In fondo si legava a quell’idea di Berlinguer, da Argan pienamente condivisa, della necessità di una ecologia dell’intervento, di una austerità come nuova via di sviluppo. L’effimero era comunista perché anticonsumista e anticapitalista. Nicolini ci aggiunse, in anni in cui si stentava a uscire dal terrorismo, la possibilità di farlo divertendosi; insomma l’idea di effimero, sua e di Argan, non era in contrasto con la tutela dei beni culturali che mira a conservare non solo “materialmente” le cose ma anche il loro “senso” nella vita di oggi. Che poi, dalla metà degli anni ottanta, l’effimero sia diventato un elemento della spettacolarizzazione della cultura, con il fenomeno delle grandi mostre e dei grandi eventi che hanno finito per mangiarsi le ordinarie politiche di tutela, questo è un altro discorso.

L’impegno a favore della tutela dei beni culturali (nel senso estensivo che va dalla conoscenza fino alla valorizzazione) fu la maggiore incombenza di Chiarante negli ultimi venti anni. Fondata nel 1991 l’Associazione Bianchi Bandinelli, Chiarante ne aveva assunto, dopo la morte di Argan nel novembre dell’anno successivo, la presidenza e la tenne per 13 anni avviando una serie di incontri, convegni, documenti, interventi per sostenere una rinnovata politica della tutela che mettesse al centro le competenze tecnico-scientifiche di archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti, bibliotecari, senza dimenticare gli antropologi e categorie di beni un po’ negletti come quelli musicali. Chiarante era stato per tanti anni impegnato nelle politiche comuniste per la scuola e l’università e l’idea di fondo, sua e di Argan, fu quella di creare un’Associazione che facesse da collegamento tra il mondo della ricerca e il mondo della tutela, tra Università e Ministero, tra Professori e Soprintendenti. Per questo suo impegno, testimoniato dalle numerose pubblicazioni degli Annali e dei Quaderni giuridici dell’Associazione, nel 1998 fu anche scelto come membro dell’allora Consiglio Nazionale dei beni culturali ed eletto vice-presidente (carica che corrisponde all’attuale presidente del Consiglio Superiore). Erano quelli gli anni in cui, dopo la serie di ministri inqualificabili (interrotta solo con l’arrivo di Ronchey, Fisichella, Paolucci), il Ministero aveva ottenuto nuova visibilità con la nomina di Walter Veltroni (che era pure vice-presidente del Consiglio). Con Veltroni il Ministero assunse una nuova denominazione e nuove funzioni, aprendosi alle “attività culturali”, allo spettacolo e allo sport, in una direzione contraria al progetto di Argan e Chiarante del 1989 che avrebbe voluto l’accorpamento con il Ministero dell’università e della ricerca. Insomma si poneva di nuovo la questione del rapporto tra tutela ed effimero, ma in un contesto ormai radicalmente diverso, cioè nel pieno di quella deriva economicistica e mercantilistica del settore che stava finendo per trasformare le testimonianze della nostra civiltà in una grande macchina mediatica e lucrativa; invece il patrimonio artistico e i musei sono uno strumento di educazione del pubblico, che visitandoli deve uscirne più colto (e non solo divertito o estasiato), con minori pregiudizi (e non più conformista), proiettato sul futuro nella consapevolezza del passato (e non sradicato dalla storia). Su quella e su altre riforme del Ministero (di Veltroni e poi soprattutto di Giovanna Melandri) e della stessa Costituzione (riforma del titolo V, con la separazione tra tutela e valorizzazione) Chiarante non tacque. L’appartenenza al partito non gli aveva impedito di essere una voce critica, sempre disposta al dialogo ma ferma e decisa nella rivendicazione di alcuni principi di fondo sulla funzione della cultura e i modi della sua gestione.

Ma quel che stava per accadere sarebbe stato ben più grave: con la vittoria di Berlusconi nel 2001, l’arrivo del ministro Giuliano Urbani e del sottosegretario Vittorio Sgarbi, tutti gli aspetti e i principi della tutela e della gestione dei beni culturali, faticosamente costruiti in secoli di editti e leggi, subirono una aggressione senza precedenti. Lo stesso organo consultivo del Consiglio Nazionale non fu più convocato, Chiarante si dimise dalla carica di vice-presidente nel maggio 2002 (pur rimanendone membro) e in settembre gli organi rinnovati videro la cancellazione del suo nome e di altre figure che avevano osato firmare appelli contro l’ipotesi di privatizzazione dei musei e la svendita del patrimonio con l’apposita Spa. Le battaglie di Chiarante proseguirono attraverso l’Associazione Bianchi Bandinelli e, sul fronte politico, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra. Poi una serie di problemi di salute lo costrinsero a ridurre gli impegni anche se era sempre attento a quanto e come i più giovani portavano avanti le sue battaglie.

Era la fine di aprile 2002 (a pochi giorni dalle sue dimissioni), la prima volta in cui ebbi modo di parlare a lungo con lui: eravamo stati invitati a un convegno su Argan nella sua amata Bergamo (io e Claudio Stoppani eravamo i più giovani, Chiarante il più anziano); poche settimane dopo ci chiese di entrare nel Consiglio direttivo dell’Associazione. Aveva davvero una sincera fiducia nei giovani e nella forza delle idee innovative. Ricordo ancora quando, di lì a qualche mese, andai da lui con il mio computer portatile e gli feci vedere il sito internet dell’Associazione che avevo realizzato di mia iniziativa: sorrise, approvò, poi più volte seppi da altre voci che andava fiero di questa conquista del mondo virtuale anche se lui era un uomo cresciuto con i libri di carta. Ricordo quando lo andavo a visitare negli ultimi anni, la casa piena di libri che, non trovando posto negli scaffali colmi, avevano invaso gli spazi liberi: ogni ripiano o tavolino aveva pile di volumi, che i problemi agli occhi gli avrebbero reso sempre più inaccessibili. Anche di Nicolini ho il primo ricordo legato ai libri: ero ancora uno studente universitario e lo incontravo a Porta Portese, alla consueta bancarella dell’usato, dove con vorace curiosità cercava libri, cioè materiali per semplice diletto o nuovi progetti, trampolini per idee non effimere. Già, la presenza di una voce (per la tutela dei beni culturali) nel mondo virtuale era come l’effimero di Nicolini: perché le idee lasciano il segno nella coscienza critica e il virtuale e l’effimero possono essere attività molto concrete e durature di impegno militante.

 

 

 
       
       
       
       
       
 

 

   
       
       

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