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Beni Culturali: ma di chi? (1986)*
Giulio Carlo Argan


Non esiste un concetto di bene culturale. Vi sono cose, gruppi e complessi di cose che hanno importanza per la storia, la condizione presente e i prossimi sviluppi della cultura. La cultura non è proprietà di persone, di classi, di singoli paesi; è di tutti. Bene culturale significa dunque bene pubblico. Il termine «bene» ha un senso patrimoniale: i beni culturali sono tali perché parti di un patrimonio. Il patrimonio culturale è mondiale, dunque ciascun paese risponde del proprio a tutto il mondo civile. Ogni paese civile ha leggi che proteggono, cioè disciplinano l’uso del proprio patrimonio culturale: all’apparato giuridico corrispondono servizi tecnici e amministrativi per l’interpretazione e l’applicazione delle leggi di protezione. La Costituzione della repubblica italiana (art. 9) ne fa carico allo Stato e collega l’obbligo della conservazione a quello dello sviluppo. Benché ci sia una legge e un apparato di servizi la gestione del patrimonio culturale e ambientale in Italia è tutt’altro che soddisfacente: da molto tempo le perdite sono di gran lunga superiori agli acquisti. Se questa situazione dovesse prolungarsi non soltanto il prestigio, ma la consistenza materiale del patrimonio culturale italiano entrerebbero in una fase di declino irreversibile. Le cause di questo stato di cose sono parecchie: 1) l’inadeguatezza delle leggi di tutela e la fiacca osservanza delle loro norme; 2) l’esiguità delle cifre stanziate dallo Stato per la conservazione e lo sviluppo della cultura; 3) il difettoso raccordo tra ricerca scientifica e tutela pratica delle cose; 4) la scarsa sensibilità del pubblico alla protezione e all’incremento di un patrimonio che gli appartiene.
La legge è inadeguata per una serie di motivi. Anzitutto è vecchia, l’ultima revisione seria è del 1939: da allora sono mutati l’orientamento e l’estensione degli studi di archeologia, storia dell’arte, etnografia, urbanistica, ecc.; le condizioni sociali ed economiche; il rapporto tra pubblico e privato. Le difficoltà permangono, anzi si sono aggravate: benché da molti anni esista un apposito Ministero per i beni culturali, la legge del 1939 non è ancora stata riformata: un progetto è all’esame del parlamento, ma non ha finora potuto essere approvato perché tra le forze politiche manca l’accordo circa il rapporto tra l’interesse pubblico e il privato. Il patrimonio culturale e ambientale è in parte di proprietà demaniale, in parte di proprietà di enti e privati; in quanto fanno parte di un patrimonio unitario, anche le cose di proprietà privata sono d’interesse pubblico; ciò comporta ovviamente degli impedimenti e delle limitazioni nella disponibilità delle cose da parte dei proprietari; la legge sancisce bensì l’interesse pubblico delle cose d’interesse culturale e ambientale, ma evita di contraddire al principio della discrezionalità dei proprietari. L’apparato giuridico dello Stato è strutturato in funzione della difesa della proprietà privata: ne discende che le stesse leggi dello Stato per la protezione del patrimonio culturale e ambientale sono in deroga o, comunque, in difficile sintonia con l’apparato giuridico globale. Da ciò dipende la riluttanza, da parte delle magistrature locali e nazionali, a sostenere il preminente interesse pubblico e dello stesso Stato alla fruibilità di beni privati da parte della collettività. Conseguenza più grave è la riduzione della legislazione protettiva a una serie di limitazioni e divieti che la rendono impopolare, inutilmente restrittiva, scarsamente efficace. Inoltre, non potendosi costruire una politica costruttiva sulle limitazioni e i divieti, l’Italia è riuscita soltanto a organizzare un’amministrazione, non una politica dei beni culturali e ambientali: la tutela non è mai diventata, come sarebbe necessario, un vettore della programmazione. Non essendoci una politica culturale, ma soltanto una conservazione, per di più insufficiente, è comprensibile, ancorché deplorevole, che lo Stato destini al patrimonio culturale una parte vergognosamente piccola del proprio bilancio: lo 0,21%.

Grava poi sulla condizione del patrimonio culturale e ambientale una condizione d’incertezza attributiva: la Costituzione affida la gestione alle Regioni; lo Stato non ha mai promulgato una legge-quadro per il passaggio alle Regioni non solo del materiale in possesso ma della responsabilità di una politica dei beni culturali; salvo qualche rara eccezione, le Regioni non hanno mostrato alcun desiderio di assumere la gestione e di organizzare una politica dei beni culturali e ambientali. È ovvio che il primo dovere dei responsabili del patrimonio è la sua conservazione. È comprensibile che il patrimonio, in gran parte di oggetti antichi, sia soggetto a un progressivo deperimento per cause naturali. Nei limiti delle sue possibilità, la scienza moderna dispone di mezzi capaci di prevenire i guasti del tempo, di rimediarvi, di rallentarne il progresso. Purtroppo la scarsezza dei mezzi finanziari impedisce di impostare grandi campagne di catalogazione, scavo, restauro.
Molto più pesanti sono i danni dovuti a cause non naturali. I furti nelle chiese e negli stessi musei sono frequenti e paurosamente gravi; gli scavi clandestini, le esportazioni abusive sono causa di un’emorragia ormai cronica. Esiste un servizio speciale dei Carabinieri, di cui non vanno sottovalutati lo zelo e il successo; ma di molte opere rubate, anche importantissime (si pensi alla grande Natività del Caravaggio a Palermo) s’è perduta ogni traccia e c’è da temere che siano, almeno per l’Italia, irrimediabilmente perdute. C’è da sperare che Stato ed enti si forniscano di mezzi di protezione e di allarme; ma non si ridurranno le perdite dei furti se non si organizzerà un controllo del mercato e una maggior vigilanza alle frontiere.
Il deperimento da cause naturali, i furti, gli scavi e gli espatrii clandestini, le esportazioni illegali sono danni quasi trascurabili in confronto a quelli causati su larga scala nelle città e nel territorio da parte della speculazione fondiaria, dell’edificazione abusiva, dell’inquinamento dell’atmosfera e delle acque. La speculazione fondiaria ha già compromesso irrimediabilmente i centri storici delle città italiane sia attaccandoli direttamente sia soffocandoli con periferie gremite e malsane. Monti e litorali sono stati invasi e deturpati per sempre dalla sciagurata proliferazione delle seconde case. Quanto ai danni da inquinamento basterà rammentare che le sculture degli archi e delle colonne trionfali di Roma sono state quasi disgregate dai gas delle automobili e dei riscaldamenti. Non dico la descrizione, ma il semplice elenco di danni dovuti a queste cause colpevoli riempirebbe un grosso volume: un vero libro nero della storia culturale (e anche sociale) italiana. Ma, praticamente, il Ministero per i beni culturali con i suoi servizi tecnici e amministrativi non ha potuto né può impedirli perché, data la concezione piuttosto ristretta che si ha della cultura nel nostro paese, il problema non rientra nella competenza del ministero. Senza entrare nei particolari, basterà dire che la gestione della maggior parte dei beni culturali e ambientali italiani non rientra nella competenza degli organi politici, amministrativi, tecnici per la tutela dei beni culturali. La condizione deplorevole delle maggiori città italiane, a causa della fabbricazione intensiva e dello sfruttamento esoso dei suoli urbani, è la prova evidente che, in Italia, l’interesse pubblico è pochissimo difeso dal prepotere dell’interesse privato. Ancora: dimostra che le forze impegnate nella protezione dell’interesse pubblico dei beni culturali non bastano a fronteggiare l’aggressione delle forze miranti allo sfruttamento spietato, al consumo distruttivo dei beni culturali col fine del profitto privato.

Vi sono, dunque, due tendenze contrarie: l’una rivolta a estendere, anzi generalizzare il diritto della collettività a fruire dei beni culturali, l’altra mirante a privatizzarli. Delle due, la prima è conforme alle vedute della ricerca scientifica più avanzata nei vari campi disciplinari interessati. Alla fine del Settecento, per effetto della secolarizzazione della cultura avviata dall’Illuminismo e sistematizzata dall’ideologismo della rivoluzione francese, è cominciato il passaggio alla proprietà pubblica dei patrimoni culturali delle corti, dell’aristocrazia, dei conventi. Ha favorito il processo di de-privatizzazione lo sviluppo dell’archeologia e della storia dell’arte secondo metodologie scientifiche di ricerca, classificazione, giudizio. La formazione dei grandi musei pubblici era in rapporto con la nuova esigenza di raccogliere ed ordinare i documenti della cultura del passato secondo criteri scientifici che non riguardavano soltanto la conoscenza e la conservazione del materiale, ma la sua disponibilità e funzionalità ai fini di una cultura che si voleva generalizzata e non più patrimonio esclusivo di classi privilegiate. Nel nostro secolo, poi, la trasformazione delle strutture sociale ed economiche determinata dallo sviluppo della produzione industriale e dalla diversa distribuzione e gestione della ricchezza ha portato alla dissoluzione delle raccolte d’arte e delle biblioteche private, perfino degli archivi delle vecchie famiglie patrizie. Il processo di alienazione e di dispersione dei beni culturali privati, però, non è avvenuto soltanto come passaggio dalla sfera privata alla pubblica: la borghesia, cioè la nuova classe dirigente, ha cercato di subentrare alla vecchia nel possesso di un patrimonio culturale che cosi è divenuto, oltre che motivo di prestigio sociale, oggetto di speculazione commerciale. Si sono determinate le due tendenze contrarie il cui contrasto sta raggiungendo oggi carattere di alternativa, anzi di dilemma. Da un lato si vuole e si chiede una disciplina dei beni culturali, che comporta logicamente la limitazione della libera disponibilità della proprietà e, prima o poi, il passaggio dei beni culturali alla proprietà e alla gestione demaniale: e beni culturali sono il territorio, la città con i loro monumenti e i loro centri storici, i terreni archeologicamente fecondi, i musei, le biblioteche, gli archivi, ecc. La tendenza contraria, della privatizzazione, mira indubbiamente al possesso materiale e alla libera disponibilità delle cose, ma anche alla loro gestione (come oggi si dice) manageriale e cioè direttamente o indirettamente finalizzata al mercato e al profitto. Lo scontro tra le due tendenze è stato ed è molto aspro, ma la tendenza al mercato e alla privatizzazione è obiettivamente (e sciaguratamente) più forte, anche perché i governi borghesi tendono logicamente a proteggere gli interessi della borghesia e gli investimenti privati in fatto di mercato dei beni culturali sono stati incomparabilmente maggiori degli investimenti pubblici. Inoltre si è accentuata la tendenza, da parte dei paesi più ricchi, ad appropriarsi, attraverso il mercato, dei patrimoni culturali dei paesi più poveri: è un’emorragia ancora relativamente lenta, ma inarrestabile.

Al fronte dell’interesse pubblico, che è anche l’interesse della scienza e della cultura, si ha il fronte della privatizzazione, indubbiamente più forte quanto a mezzi economici e sostegni politici. Oggi il fronte della privatizzazione è in movimento, anzi in fase offensiva: col sistema solo apparentemente benefico delle cosiddette sponsorizzazioni il grande capitalismo non si accontenta più di «aiutare» lo Stato e gli enti pubblici nel pesante compito della tutela del patrimonio ma ad assumerne in proprio la gestione: e cioè la direzione culturale del paese. Non si può negare che il capitalismo sia portatore, oltre che di forti mezzi finanziari, di moderne tecnologie e metodologie, che possono anche giovare alla conservazione delle cose e perfino alla riforma del sistema; ma non occorre essere profeti, basta un po’ di buon senso per capire che il coinvolgimento del patrimonio culturale in un grande sistema di mercato porterà inevitabilmente al sovrapporsi degli interessi economici ai culturali, specialmente dei paesi poveri come l’Italia. Ne tanto si mira, da parte del grande capitalismo, ad un passaggio della proprietà (che sarebbe difficile ed oneroso) dalla sfera pubblica alla privata, cioè dal museo al mercato, ma alla privatizzazione dell’interesse pubblico, e cioè all’assunzione della direzione culturale da parte del grande capitale. E ciò sarebbe di una gravità inaudita perché sarebbe una piena e grave rinuncia allo stesso ordine democratico.
La proprietà e la gestione pubbliche del patrimonio culturale interessano l’intera collettività dei cittadini: 1) perché è una ricchezza comune che non deve essere amministrata col fine, diretto o indiretto, del profitto privato; 2) perché sono conformi allo sviluppo delle discipline scientifiche che chiedono per i patrimoni culturali una gestione culturale e non manageriale; 3) perché sono un fattore essenziale dell’educazione. Non si può sperare di salvare il patrimonio culturale dallo sfruttamento distruttivo in atto senza l’impegno volitivo della collettività intera. Poiché i governi fanno, con la loro stessa incuria, gli interessi della proprietà privata, solo la collettività può imporre ai governi la gestione del patrimonio culturale al fine della educazione delle masse. Ma se solo l’interesse della collettività potrà salvare il patrimonio culturale e ambientale, solo il patrimonio culturale e ambientale potrà salvare l’individuo e la collettività dalle conseguenze fisiologicamente e psichicamente nefaste dello stato di alienazione, di non-adattamento, in cui lo pone l’uso che la borghesia capitalistica ha fatto e fa delle cose della cultura e dell’ambiente. La stessa veduta estensiva della cultura moderna unifica i termini di bene artistico e ambiente, nel concetto di ambiente rientrando cosi lo spazio urbano come il territoriale: e tutti sanno che oggi si considera bene culturale anche il paesaggio, in quanto è un prodotto del lavoro umano, e lo documenta.

L’ambiente essendo, anzitutto, una realtà storica, va studiato storicamente, come arte del passato che seguita e si sviluppa nel presente: ma che cosa fa la scuola per aiutare l’integrazione dei bambini, dei ragazzi, dei giovani nell’ambiente reale, cioè naturale e storico, dell’esistenza? Poco, anzi nulla: o almeno, nulla in questo senso è previsto e disposto dai programmi ministeriali almeno nella superiore. E, certo, l’insegnamento della storia dell’arte in alcuni rami dell’insegnamento secondario superiore meriterebbe ben altro spazio e ben altri mezzi se si vuole che la cosiddetta classe dirigente di domani abbia almeno una vaga nozione dell’immenso patrimonio che dovrà, in qualche modo, amministrare. Ma il problema maggiore è quello della scuola primaria, della scuola dell’obbligo, della secondaria di indirizzo tecnico. Nessuno pretende che si impartisca, in questi diversi livelli e settori, un insegnamento specialistico di storia dell’arte; ma almeno non si mettano i ragazzi in una condizione di estraneità totale (alienazione, appunto) rispetto al loro ambiente vitale. Si tratta soprattutto di stabilire un rapporto di familiarità con i luoghi e gli oggetti che caratterizzano quell’ambiente, di suscitare nei singoli l’interesse di conservare e migliorare la vita della comunità concorrendo a progettare lo sviluppo della città e del territorio nell’interesse comune.
Questa educazione del cittadino a considerare la tutela del patrimonio culturale come un interesse di tutti può essere dato solo dalla scuola e, soprattutto, dall’iniziativa e dall’impegno personale dei docenti. Infatti, dall’impostazione data finora alla scuola italiana non ci si può certo aspettare una maggiore apertura sui reali problemi di una cultura democratica.

 

 

   *    L’articolo Beni culturali, ma di chi?, fu scritto su richiesta del Mensile del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti: «Insegnare» (a. II, n. 7-8, luglio-agosto 1986, pp. 7-9) e testimonia la fase ultima, quella degli interventi in Senato, successiva anche alla discussione sulla crisi dell’arte e alla difesa della storia: una rinnovata militanza che, dopo l’esperienza di sindaco, si concentra tutta in difesa di quel patrimonio culturale che egli vedeva sempre più minacciato dagli interessi dei privati e dalla demolizione dello Stato, cioè, secondo lui, della coscienza civile dei cittadini. Ci sembra che la sostanza del discorso di Argan non abbia perso d’attualità e che anche quando non se ne possano più condividere singoli punti rimanga intatto l’esempio dello storico e critico che mette la propria esperienza e ragione a servizio della collettività, che opera anche al di là degli stretti confini dello specialismo disciplinare, che sceglie, come ebbe a dire presentando un suo libro, di «non assistere agnostico e inerte» a quanto accade nella cultura del proprio tempo.